“Ma di nuovo vivranno i tuoi morti, risorgeranno i loro cadaveri. Si sveglieranno ed esulteranno quelli che giacciono nella polvere, perché la tua rugiada è rugiada luminosa, la terra darà alla luce le ombre”
Isaia 26,19
L’esistenza di una piccola comunità ebraica mantovana è documentata sin dal XII secolo. Nella seconda metà del Trecento divenne molto più numerosa con l’arrivo di nuovi nuclei familiari che trovarono nella città virgiliana un sicuro rifugio. Un secolo dopo l’insediamento ebraico è particolarmente vivace e florido, grazie alla presenza di esperti artigiani dediti alla produzione e al commercio dei metalli preziosi, della seta e dei tessuti pregiati. Nel Rinascimento gli ebrei diventarono poco alla volta sempre più protagonisti del tessuto economico e sociale di Mantova, soprattutto in seguito alla loro ascesa nel settore bancario. L’epoca d’oro della comunità israelita coincise indubbiamente con la signoria dei Gonzaga. I marchesi, poi duchi, di Mantova furono infatti molto tolleranti nei confronti degli israeliti, nonostante un’atavica ostilità nella popolazione; intolleranza alimentata anche dalla predicazione religiosa (soprattutto da parte dei francescani). I Gonzaga non esitarono a chiamare a Mantova, garantendo vantaggiose concessioni, numerosi banchieri ebrei che contribuirono a rinvigorire le entrate del Ducato e rafforzare la vitalità economica e culturale della città virgiliana. Solo nel 1610 Vincenzo I Gonzaga, cedendo alle pressioni delle autorità ecclesiastiche, dispose il confinamento della comunità ebraica in un ghetto. Fu verso la fine del Settecento, con la politica riformatrice e illuminata dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria e successivamente di suo figlio Giuseppe II, che iniziò un lento processo di emancipazione. Gli ebrei, tra l’altro, non furono più obbligati a mostrare un segno distintivo e poterono ritornare pienamente partecipi della vita economica e sociale di Mantova. Nell’Ottocento la comunità israelita era perfettamente integrata e molti furono gli ebrei che, riconoscendo l’Italia come Patria, abbracciarono gli ideali risorgimentali. Gli israeliti disposero per oltre tre secoli di un luogo di sepoltura collocato nella zona detta di San Nicolò in località Gradaro. Ma, a seguito delle nuove disposizioni igienico sanitarie promulgate verso la fine del Settecento dalle autorità austriache, fu necessario individuare un nuovo terreno cimiteriale al di fuori del centro abitato. In accordo con le autorità civili, alla comunità israelita fu assegnata un’area presso il borgo di San Giorgio poco distante dal cimitero cristiano di San Vito. La destinazione ad uso militare della zona causò nell’Ottocento numerose revoche temporanee all’utilizzo del nuovo cimitero. Le esigenze militari imposero inoltre continue modifiche all’estensione del camposanto. Risale al 1866, su progetto dell’ingegnere Clemente Viterbi l’assetto definitivo comprensivo del corpo d’ingresso, della camera mortuaria e dell’abitazione del custode. Fu quindi razionalizzato l’impianto cimiteriale con il ridisegno dei viali, l’organizzazione delle sepolture e la riedificazione della cinta muraria. Nella parte più lontana dall’ingresso si trovano le sepolture più antiche. Nell’area più vicina al portale si trovano circa duemila sepolture. Si nota tra queste la differenza tra le lapidi tardo ottocentesche, molto sobrie nel pieno rispetto della tradizione funeraria ebraica, e quelle di inizio Novecento, più monumentali ed elaborate.
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